A proposito di La via stretta
Non c’è niente di “parochial” – per dirla con gli anglosassoni – in questa apologia del misticismo, che non a caso s’intitola “la via stretta”, stretta, disagevole, sfiancante, abdicataria del mondo, per giungere al mistero, per giungere dove non c’è più differenza fra essere e non essere, tema questo comune a tutti i misticismi, occidentali e orientali, da Juan de la Cruz a Meister Eckart, dal taoismo al buddhismo, e dove non c’è più differenza allora neppure fra Dio e uomo.

È un’opera permeata di un simbolismo che rifugge sistematicamente da ogni realismo, dove l’“abbandono”, cioè la vocazione, non trova addentellati di giustificazionismo neppure occasionali, ma conduce le protagoniste e il lettore nella direzione voluta di una vera e propria estasi, in un percorso che non lascia rimpianti per la terraneità, un percorso nel quale tutto – dagli affetti familiari alle circostanze di tempo e di luogo – appare
sfuocato nel “simbolo” di un’altra realtà più vasta, trascendente.

Apologia del misticismo, difesa del misticismo, in questa opera insolita e inaspettata, una difesa ad oltranza che si manifesta anche nello stile, essenziale, scarno, ascetico direi, al punto che ripensandoci sembra di avere letto il canovaccio di un dramma, dove si rifugge dalla descrizione dei sentimenti dei protagonisti, che vengono invece di volta in volta sentiti e interpretati dal lettore, in una sorta di un leggere aperto che lascia molto al pensiero, all’immaginazione, alla premonizione, grazie anche a questa prosa sospesa in bilico sul fenomenico e tesa a cogliere e far cogliere il noumenico dell’“oltre”, l’oltre che c’è dopo “la via stretta”.

27 luglio 2015

Federico Bock