La bicicletta gialla
Carlo Battaglini
La radiosveglia comincia a fare il suo lavoro: “Milano è una città di frontiera, e io da Roma non ci passo più…”
Mi giro tra il bisogno di alzarmi dal letto e la voglia di restarci. In mezzo mi sovviene che a Roma non ci sono mai stato. In fuga dall’Albania raggiungemmo subito Milano. Erano gli anni di piombo. A Milano se lo sparavano per strada, in Albania te lo mettevano alle caviglie se stavi contro Enver Hoxha.
Dovetti arrangiarmi alla svelta. Diventai un esponente della ligera, che andava via via sparendo per lasciare spazio a una malavita molto più spietata. E siccome menavo spesso le mani, divenni ben presto el Locch per tutti.
Sbadiglio. Più che uno sbadiglio è un barrito. Se non avessi un mestolo di fango in bocca, bestemmierei tutti i santi del mese corrente. Se mi ricordassi in che mese siamo.
“Milano è una città del futuro, e chi ci vive non sa come sta, però stanno tutti insieme, stanno tutti là”. La sveglia continua a far sentire che conosce tutta la canzone. “Milano è una città del futuro, per me Milano se n’è andata già. Ha imbarcato tutta quella gente, e adesso chissà dove sarà”. Ogni nota è una botta in testa. Mi vendico colpendo quell’aggeggio che in fondo sta solo facendo il suo dovere, e il silenzio mi scolla le palpebre.
Degno di uno sguardo infinitesimo i Palazzi scrostati che sostengono il cielo al di là della finestra. Attorno alle sommità volteggiano gracchianti cornacchie. Alla faccia di chi dice che si guarda il cielo quando si spera in qualcosa. Forse vale solo se ci sono le stelle.
Mi alzo barcollando. Non sono abituato a tirarmi su a quest’ora, ma oggi devo farlo. Mi appoggio al davanzale. Potrebbe piovere. Già il paesaggio è deprimente, se poi piove è da suicidio.
Quando esco, un effluvio culinario, non so se definirlo cattivo odore o buona puzza, pervade la scala che porta nello slargo davanti casa, dove vengo deliziato dalla vista del cumulo di rottami. Sono per lo più scheletri di bicicletta, quasi tutti di quel colore grigio chiaro, retaggio nostalgico della nebbia di una volta, monumento effimero al furto perpetrato ai danni del Comune.
Li ignoro e mi avvio verso il bar. Ero poco più di un bambino quando il sciur Modena l’aprì come vineria. Già si chiamava Mo Dè, come a dire mò de qua e mò de là, allora riferito alle ideologie politiche, e ora a tutte le etnie del mondo accozzate nel quartiere.
Davanti al bar c’è el Senatur. Sono anni che tenta di farsi eleggere in qualsiasi elezione. Senza mai riuscirci. Sarebbe da votare almeno per la costanza, se non fosse un emerito imbecille. Se lo scruti con attenzione dovresti riuscire a scoprirgli una svastica da qualche parte, intanto puoi bearti delle cazzate che spara, inframezzate da sproloqui sulle tradizioni cristiane dell’Italia. Non ci sarebbe da stupirsi se si mettesse a ringraziare Dio per avergli dato il confronto di civiltà che gli regala qualcuno da odiare. E avere qualcuno da odiare aiuta a tirare avanti. Se sapesse che dietro il mio dialetto milanese si nasconde un albanese non mi saluterebbe più. Ora lo fa, ma io gli rispondo appena. Per me è solo uno dei tanti stronzi senza un cazzo da fare. E pensare che la terra è piena di zappe.
Entro. Faccio un cenno di saluto al giallo pallido della faccia di Chen dietro il bancone, esamino le paste, decido che la brioche confezionata ha un minor tasso d’infezione e ordino un cappuccino.
Lo deglutisco con una smorfia. “Cussa gh’è denter…?”.
Chen mi fa gli occhi ancora più a mandorla. “Tu non parlare dialetto”, dice.
So che sta facendo finta di non aver capito E lui sa che lo so. “Sai com’è… Il cinese proprio non mi entra in testa. Mi sa che non farò mai carriera. A proposito, anche la brioche fa cagare.
Lui non ribatte, ma solo perché viene preceduto. “Uè Locch, cussa te fè chi de matina?”
Mi giro. “Uelà Modena. E ti…? Ancura chi? Ma cumè che t’a vendù el bar al Chen? l’è minga bon”.
Il vecchio Modena si stringe nelle spalle. “El me gà dà un mucch de danè”. Ottimo motivo. Prova a offrirmi qualcosa, ma dallo stomaco il cappuccino e la brioche mi dicono di non voler compagnia, pena una gastrite devastante.
Il Modena mi squadra di sguincio. “Me racumandi…”
Sbuffo. “G’ho mica mai durmì a San Vitur”, dico a mò di saluto.
Le sue parole mi raggiungono prima che la porta si richiuda. “Fa no el pirla”.
Eh già. Mi vuol bene come a un figlio.
El Senatur sta ancora concionando monotematico. Un tempo gli venivano buoni i terroni, poi vennero tutti gli altri. Non merito le sue frustrazioni, proprio ora che devo abituarmi a un futuro schiacciato tra chi mi precede e chi mi ha già sorpassato sgomitando. Qua la città sta mutando così veloce da farmi perdere i punti fissi. E’ una Milano scomparsa, che in fondo doveva scomparire. Bastano pochi passi per andare indietro nel tempo. Le facce son sempre le stesse, una volta erano del sud, ora sono internazionali. E’ un navigare a vista, ma non c’è nulla da fare con la vita; in qualche modo devi viverla, magari mettendoci un sorriso, anche se non riesci a stare dietro al mondo che cambia. Un mondo ingiusto e belligerante che avrei voluto girare. Invece il mondo è venuto da me circondandomi di gente esotica. Un futuro che non avevo previsto; di adattamento ai cambiamenti. Tutto da immaginare. Per questo non mi è mai pesato. E finalmente vedo il motivo del mio sollecito risveglio: la panetteria di Arslan dall’altra parte dell’incrocio. Col semaforo che deve avermi in antipatia: si mette a lampeggiare costringendomi a zigzagare tra le auto incolonnate, di sghimbescio, che lo spazio è quello che è. Anche questa a modo suo è una Milano di periferia. L’antipasto di qualcosa di più intenso. Che mi fa ansimare. Va bene le gioie del palato, ma l’età comincia a farsi sentire. Non ho il tempo d’incantarmi sulle leccornie della vetrina: Arslan esce agitando un sacchetto. “Appena sfornati”, annuncia. “I burek…”, mormoro osservando quei triangoli di pasta ripieni. Mi sono mancati. Sono le fotografie di un’infanzia mai messe in un album. D’improvviso la mia goduria viene bloccata da una bicicletta fregata al Comune, mal mimetizzata da una vernice gialla e mal guidata da un tipetto che mi derapa addosso. Il primo istinto è di menarlo, ma lui strizza gli occhi incassando la testa, come un bimbo abituato a prenderle da tutti. “Scusasse cumpà. Sapete com’è. Simme sotto stu cielo”. Ma guarda, un napoletano. E proprio sui piedi mi doveva finire. ”Vai a fare in culo”, scandisco giusto per far penetrare il concetto. Ma sorrido mio malgrado. Quel velocipede non solo è giallo, è pure storto come una banana, e andarci dritto è solo una remota possibilità. Anche i freni sono storti. Come la cesta portapane che balla dietro il sellino. Gialla, ovviamente. Mi ricorda la faccia di Chen. So cosa ne direbbe il Modena. Da Porta Cicca in giò l’ghè tuch terun. “Lui è Ciro”, dice Arslan. “Mi aiuta nelle consegne”. Comprendo all’istante. Quando arrivai a Milano ero uno dei pochi albanesi. Arslan arrivò vent’anni dopo insieme a qualche migliaio. E un solo migrante è un migrante, mille migranti sono un problema. Ma infine Milano l’imbarcò, e ora per lui chiudere il cerchio è dare lavoro a Ciro. Qui a Milano. Sotto stu cielo. Dove se viv la vita…