La ragazza con la camicia verde
Giuseppe Borasi e Marco Gazzoli
Il corpo venne ritrovato dalla custode subito dopo aver preso servizio, quando era salita per le scale a controllare le finestre. “Sa, per i piccioni Commissario. Se entrano poi sporcano e mi tocca anche pulire.”
Arrivata al secondo piano aveva notato la porta aperta dell’appartamento di fronte all’ascensore. “Ho capito subito che qualcosa non andava. La Dottoressa era una donna precisa.” E tacque scuotendo la testa e ritornando con la memoria a quanto visto quella mattina. “L’ho chiamata, un paio di volte, poi ho aperto un poco la porta e l’ho vista…a terra…Dio mio…” E si era richiusa nel silenzio.
Le volanti sopraggiunte non avevano potuto far altro che accertare la presenza del cadavere della padrona di casa, stesa nel soggiorno con una brutta ferita alla testa. Appena arrivato, il Commissario Fabbri ricevette i dettagli dall’Ispettore Montefusco: la poveretta si chiamava Ilaria Ruggiero, anni 37, giornalista, nubile, trovata morta in casa per un colpo alla testa. Aveva parlato con la custode ed era salito al secondo piano. Adesso, mentre i colleghi della Scientifica proseguivano con le loro operazioni, il Commissario Fabbri osservava il soggiorno dell’appartamento; era la parte che preferiva del suo lavoro, osservare le case delle persone. Forse in una precedente vita era stato un architetto, ma oggi il suo compito era scoprire chi aveva spezzato la vita a quella donna.
La sua attenzione venne catturata da una foto sulla libreria, in legno laccato bianco. Davanti ad una fila ordinata di edizioni Adelphi, spiccava una cornice di argento martellato. La foto ritraeva la vittima in compagnia di un uomo. Abbracciati. In barca. Illuminati dal sole e sullo sfondo il blu del mare. Fabbri lo riconobbe subito e ricollegò il nome di lei. L’uomo era il fratello della vittima, Pierpaolo Ruggiero, suo compagno di classe al liceo.
Erano passati vent’anni dall’ultima volta che l’aveva vista. Recuperò il ricordo di lei, seduta in metro. Sulla linea rossa. Si ricordava bene quella scena: lei riccia, un po’ spettinata, con una camicia da uomo, di lino verde, verde mela. Lui era salito in De Angeli e se l’era trovata seduta di fronte. Il verde della camicia in contrapposizione al blu scuro della plastica dei sedili. Non si ricordava affatto di cosa avessero parlato, ma si ricordava che era rimasto affascinato da quella ragazza così determinata, piena di ideali e allo stesso tempo fragile nelle sua camicia da uomo di qualche taglia più grande. La casa denotava invece uno stile decisamente diverso; più maturo, più elegante. Fabbri ne rimase colpito. Non si sarebbe aspettato una tale raffinatezza degli spazi e cura nei dettagli. Locandine di film, vecchie pubblicità. Scelte fatte con gusto, in cui dominavano i contrasti cromatici. Si pentì subito della sua momentanea distrazione; la poveretta era ancora stesa a terra a pochi passi da lui. Ma d’altronde, pensò tristemente, a fare questo mestiere ci si abitua in fretta a tutto, anche alla morte. Si voltò verso il corpo. I colleghi, nascosti dietro mascherine, tute e calzari, avevano terminato. Il Commissario la guardò. Il tempo era stato clemente con lei, meno la mano della persona che l’aveva ridotta così. Il viso abbronzato, i capelli in un caschetto nero, un leggero trucco. Jeans denim, mocassini neri, una camicia azzurra da uomo – notò Fabbri e si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
Si incontrarono un paio di giorni dopo. Si erano dati appuntamento in zona Pagano, Fabbri l’aveva raggiunto vicino a casa.
“Ti va se facciamo quattro passi?” gli chiese.
Camminarono un po’. Quella era la loro zona, erano cresciuti lì, tra Pagano, Corso Vercelli, Via Rasori, Wagner. Ricordarono i tempi della scuola, i professori, i compagni. Ripercorrevano gli stessi marciapiedi che calpestavano da ragazzi.
“Cagnoni, te lo ricordi? Stavo per ore davanti a quella vetrina” disse Pierpaolo.
“Varcare la soglia era già un regalo. Quando i miei mi dicevano “ti porto da Cagnoni” non stavo più nella pelle!” proseguì Fabbri.
Fabbri conosceva bene il dolore, il mese seguente avrebbe compiuto 20 anni di servizio, sapeva che le persone hanno bisogno di attraversare il dolore fino in fondo. Chi lo scala da solo di corsa, chi lo attraversa piano, a volte piangendo, e chi ha bisogno di girarci intorno facendo finta di nulla. Pierpaolo apparteneva a quest’ultima categoria.
“Ma tu li hai mai provati i monopattini?”
Fabbri scoppiò a ridere “Sembriamo due vecchi Pier! Comunque no, non li ho provati. Mi piace camminare per Milano. Come facevamo un tempo. Qui vent’anni fa c’erano negozi diversi, mi piaceva guardare le vetrine. Ti ricordi che andavamo alla UPIM di Via Marghera? E le pizzate di classe in Via Ravizza?”
Fermi al semaforo videro passare un tram. “Una volta era il 24, adesso è il 16” constatò Pierpaolo. Proseguirono camminando e ricordando. Marghera, De Angeli, fino in fondo a via Ravizza. In via Domenichino si sedettero su una panchina vicino ad una fontanella. Il silenzio scese tra loro. Fabbri osservava le foglie dei platani, alcune già a terra, altre ancora sui rami, cullate da una leggera brezza. Il suono dell’acqua della fontanella rompeva il silenzio.
“Non doveva succedere” disse all’improvviso Pierpaolo. Fabbri rimase in silenzio. “Era un’idealista. Aveva le sue convinzioni.” Proseguì l’amico. “Aveva un blog. Scriveva. Ha pubblicato anche qualche articolo.”
“Me la ricordo da ragazza.” disse Fabbri. Una frase così, senza giudizio, per dare un sostegno al discorso.
“L’ho aiutata per anni sai? Le mandavo i soldi da Singapore.” Sospirò: “Guadagnavo bene già da allora. Avevo timore si mettesse nei guai con le sue idee liberali. Le ho comprato anche la casa.”
Fabbrì annuì. Ne era a conoscenza. L’Ispettore Montefusco aveva svolto bene il suo lavoro. Setacciati i conti correnti, parlato con la banca, controllato in catasto, perquisito la casa.
“Le pagavo tutto”.
“E poi cosa è successo?” Chiese il Commissario.
Pierpaolo alzò la testa con un moto di orgoglio “Poi? E’ successo che mi son stufato! Lei faceva la paladina dei diritti, delle libertà. Ma lo faceva grazie a me! A me e ai miei soldi.” Scattò in piedi, iniziò a camminare avanti ed indietro di fronte al Commissario “Venerdì – proseguì – sono tornato da Zurigo e sono passato da lei. Mi aveva detto di passare perché aveva bisogno. Mi ha chiesto altri soldi! Le ho detto di no. Le ho detto che era ora di finirla. Lei mi ha preso in giro, dandomi del capitalista, dello sfruttatore. Mi ha riso in faccia…” tornò a sedersi e si prese la testa tra le mani “Ho perso la ragione. Ero stanco. Le ho dato una sberla. Solo una sberla, te lo giuro…una sola….” singhiozzò.
Montefusco scese dall’auto civetta con cui li aveva seguiti con discrezione fino al civico 2 di Via Domenichino, estrasse le manette e si avvicinò alla panchina. Fabbri prese sottobraccio l’amico e lo condusse verso l’auto. Mentre gli teneva una mano sulla testa per farlo salire, Pierpaolo continuava a singhiozzare, inebetito. Salire su un’auto della Polizia o su uno di quegli autobus che fanno un giro turistico delle città in quel momento per lui non faceva alcuna differenza.
Solo una sberla, solo una sberla…