Sofia

Brunello Montagnese

Sofia, come faceva ogni giovedì del mese, venne da me l’ultimo giorno di maggio del 1923. Mi portò 20 milioni di marchi, che poi altro non era che la mia paga giornaliera. A Dresda, come in tutta la Germania, ci pagavano giorno per giorno e l’inflazione era così alta che spendevamo tutto nelle ore successive per paura che il valore dei soldi si azzerasse. Un litro di latte ormai costava quasi un milione.
Il padre di Sofia era il mio datore di lavoro e quel rituale giornaliero era l’unica opportunità per stringere le mani di lei, bramavo quegli istanti più dei soldi che mi avrebbero dato da mangiare.
Durante quell’incontro, provato dalla fatica e dall’insostenibile situazione che stava ormai per esplodere, mentre lei distribuiva i soldi, mi feci coraggio e sul retro della banconota scrissi l’orario e il luogo per un appuntamento, la restituii e lei mi guardò senza dire nulla, però capì e non me ne dette un’altra in cambio.
La notte la passai nel capannone dove sgrezzavamo la cellulosa per la carta che producevamo. Fuori pioveva a dirotto. Mi ero rannicchiato dietro un’enorme rullo d’acciaio e avevo una fame da lupi, ma non avrei dormito nemmeno se avessi dovuto rimanere lì per due giorni. A mezzanotte sentii un rumore di passi, era lei.
«Sofia, finalmente».
Mi accarezzò le mani, poi si accovacciò anche lei e rimanemmo in silenzio ad ascoltare il ticchettio della pioggia sul capannone. Aveva iniziato a spiovere.
«Andiamo via». Disse, la voce un sussurro. Era come se parlasse con se stessa.
«E tuo padre? La fabbrica?».
«Restare qui è morire». Mi guardò, tutti e due sapevamo che aveva ragione.
«Questa notte?».
«Si». Mi indicò un paio di valige vicino alla porta e mi baciò lungamente.

Due giorni dopo eravamo a Milano. Alloggiammo in un albergo in Via Pellico. Lo preferimmo per via degli arredi liberty che ci facevano impazzire, Sofia aveva studiato architettura. Vi rimanemmo quasi un anno e quando iniziai a lavorare stabilmente in una grande tipografia ci trasferimmo in un bellissimo appartamento in piazza Duomo. Facemmo in tempo ad assistere all’abolizione del carosello dei tram e ci unimmo alle manifestazioni di protesta che però servirono a poco.
In questo momento ho davanti a me una piccola lastra di marmo che rubammo, complici e pazzi d’amore, agli operai che nel 1929 realizzarono la nuova pavimentazione della piazza in pietre policrome, ci incidemmo sopra i nostri nomi. O per meglio dire lo fece un caro amico scalpellino, Giacomo Dei.
Nel 1938 fu proprio lui a darci la notizia. Eravamo tutti ebrei, il mondo ormai aveva virato e si stava avvicinando al baratro. «Se continua così dovremo andarcene». Concluse lui, ma io pensai che stesse esagerando.
L’anno dopo Sofia venne sospesa dalla scuola dove insegnava. Un amico, anch’egli licenziato, mi disse che era come se il cane che aveva cresciuto e nutrito, improvvisamente lo avesse azzannato senza motivo. Amici e colleghi ci vedevano come appestati e la situazione era diventata ormai insolubile.
Sopravvivemmo di stenti e alla fine decidemmo di scappare il 13 agosto del 1941, ma la notte della fuga venimmo presi e portati in una caserma dove avremmo dovuto sostare per una settimana. Era vicinissima da casa nostra ed era stata adibita da poco a luogo di detenzione, la destinazione finale sarebbe stata San Vittore.
Eravamo da soli in cella e il nostro carceriere era un uomo grezzo e ignorante, un contadino strappato alla terra dai fascisti. La notte, a differenza della guardia, non dormimmo, anzi escogitammo un piano che a noi parve essere l’ultima spiaggia. Facemmo rumore, tanto da svegliarlo.
«Ehi!?».
«Potremmo avere un bicchiere d’acqua?».
«No».
«Neanche pagando?».
«Va bene..». Gli consegni le ultime lire che avevo nascosto nei calzini.
«Lei lo sa che siamo Tedeschi?».
«Certo, ma siete anche degli ebrei schifosi».
«E lo sa che siamo ricchi».
«Come?».
«Siamo ricchi, potremmo darle così tanti soldi che lei non dovrebbe fare più questo lavoro. Venti milioni di marchi».
«Ve..ve…». Strabuzzò gli occhi e noi contavamo di giocarci la carta della sua ignoranza.
«Sa leggere?». Gli mostrammo così la nostra banconota, che avevamo tenuto per ricordo perché era il simbolo del nostro amore e ora speravamo fosse la nostra salvezza. Lesse ad alta voce il numero e poi scandì “mark”. Si resse a stento alle sbarre, ero certo che ignorasse che quella fosse ormai da tempo carta straccia.
«Ti chiediamo solo una cosa, farci uscire da qui».
«Impossibile».
«Allora niente soldi».
«Ah sì?». Sorrise di gusto e stava per venire a prendersi la banconota.
«Cosa ti fa credere che i tuoi camerati te la faranno tenere? Noi possiamo parlare e non credo che tu possa e voglia ucciderci così, questa notte».
Ci guardò con gli occhi sbarrati e si sedette a terra senza parlare, capiva forse che non avevamo poi così torto. Si rialzò quasi subito.
«Va bene, al diavolo gli altri. Ma come giustifico…».
«Una botta in testa». Gli dissi pronto.
Lo facemmo poggiare alle sbarre e dal davanti gli detti una botta fortissima con un pezzo della branda che lui stesso aveva smontato, cadde leccando le sbarre con la lingua. Fui tentato di riprendermi la banconota ma gliela lasciai, sperando che lui intralciasse le ricerche su di noi, almeno fino a quando avesse scoperto di non essere ricco. Scappammo da una finestrella e tornammo subito a casa nostra.
Nessuno ci venne a cercare e un paio di settimane dopo eravamo in Svizzera. In Italia ci ritornammo nel gennaio del 1946. Io riallacciai i rapporti con i superstiti della tipografia dove lavoravo e Sofia venne assunta all’università.

Avere novant’anni porta in dote il fatto di soffrire di troppi acciacchi per voler vivere. Ieri ho visto in diretta il crollo del muro. Sofia non c’è più ma avrebbe pianto, lo so per certo. Neanch’io ho retto molto e ho cambiato canale, in tv è apparso un vecchio come ce ne sono tanti, come me. Aveva nello sguardo qualcosa di già visto, che non seppi decifrare, all’intervistatrice diceva di essere italiano e di chiamarsi Salvatore. Teneva con orgoglio e bene in vista, a mo’ di diploma, un foglietto. Ho ancora una buona vista e l’ho riconosciuta subito. Mi sono messo ad ascoltarlo sempre più preoccupato, persino le mani mi tremavano.
Disse che la mattina seguente gli ufficiali fascisti si bevvero la storiella che avevamo architettato. Una settimana dopo era andato da un funzionario a cui aveva mostrato quella banconota, l’altro l’aveva liquidato subito con una pedata. Allora lui era scappato, vagando per quasi un anno e poi si era unito alla nascente resistenza, disgustato di ciò che aveva fatto e avrebbe dovuto fare rimanendo in quella caserma che era stata un tempo una casa accogliente. Chiedeva scusa a noi, dichiarando che era stato ai patti e voleva rivederci, lanciava quindi un accorato appello per sapere se eravamo ancora vivi.
Provai un terrore viscerale, che mi scosse molto. Non ho risposto, questa mattina, ad un paio di telefonate. Ora però so cosa devo fare. Salvatore e la banconota hanno fatto il loro dovere. Hanno fissato un ultimo appuntamento e lei mi sta aspettando.
Ho qui la Smith & Wesson che rubammo quella notte, anche se ne io ne Sofia abbiamo mai saputo sparare. Ha un solo colpo ma credo che basti.