Un uomo d’altri tempi
Andrea Filippi
La telefonata che avevo ricevuto da mia sorella Carolina mi aveva spiazzato.
Mi aveva chiamato mentre stavo discutendo in un bar con un tizio mai visto prima su come rendere efficiente la viabilità della nostra Luino.
Avevamo idee differenti ma i prosecchi che ribollivano nei nostri corpi ci permettevano di poter divagare su ipotetiche autostrade, sottopassi e viadotti impossibili da realizzare nella realtà e inimmaginabili in una qualsiasi conversazione tra persone sobrie.
“Non vivo in una caverna senza campo…è oltre un mese che non ti fai sentire fratellone, o come ti chiamano i tuoi soci, Duca!” aveva iniziato la telefonata Carolina.
Aveva ragione, lei viveva a Milano, e io purtroppo avevo avuto i miei soliti casini, ma non era una giustificazione da poterle rifilare.
Dovevo farmi perdonare e qualunque cosa mi avesse chiesto, l’avrei fatta.
Era schietta ed era arrivata subito al dunque: voleva presentarmi un suo amico, o forse qualcosa di piú, visto che era anche il suo capo al lavoro. Me la sarei cavata con una cena e portandola poi a Luino a respirare un’ po’ di aria buona, avevo pensato io.
Avevo viaggiato verso Milano, la nostra capitale in mezzo alla piatta pianura padana, tranquillo, rilassato guidando sulle strade poco trafficate della domenica pomeriggio.
Ero riuscito anche ad andare a vedere la mia squadra del cuore a San Siro e poi ero arrivato puntuale al ristorante che aveva prenotato Carolina per cena.
Lei era fuori ad aspettarmi in compagnia del suo capo e di una sigaretta tra le dita.
Il tipo era un giovanotto spiccio, si atteggiava da manager e nel suo studio di architettura dava lavoro a una ventina di professionisti. Si chiamava Umberto.
Carolina, conoscendo la mia predilizione per le tradizioni e i piatti nostrani, aveva scelto un ristorante con cucina meneghina: il Venti.
Ogni piatto aveva qualcosa legato a questo numero. Avevamo optato per le venti cucchiaiate di polenta con i venti mondeghili, ovvero le polpettine, da dividere tra noi tre.
Carolina mi aveva presentato il suo capo che non aveva fatto troppo il misterioso spiegandomi la questione che lo preoccupava.
Edoardo, il padre del ragazzo, era scomparso e Carolina gli aveva detto che ero la persona giusta per ritrovarlo senza sollevare polveroni.
Mentre ponevo le solite domande, incassando le solite risposte che mi aspettavo, Carolina disegnava su un tovagliolo una serie di alberi fantastici, sia in senso figurato che mistico. Rimanevo affascinato ogni volta che aveva una matita da far volteggiare su un foglio. Aveva un segno naturale, complesso e creativo che invidiavo da sempre.
Quello che mi piaceva di Carolina era che fin da piccola aveva un estro innato per l’arte, il disegno e il bricolage. Quando sentiva e rimaneva coplita da una mia avventura particolare, era facile che nel giro di poche ore vedessi il mio racconto tramutato in un fumetto.
Il mio timore angosciante di fronte a un foglio bianco da dover colorare era invece per lei un facile mezzo per estraniarsi dal quotidiano ed emergere su tutti.
Umberto mi pareva seriamente preoccupato. Non capivo se per amore o per timore di perdere l’eredità. Forse la mia perplessità non era troppo intelleggibile e mi aveva detto “Mio padre ha ottantasette anni ed è molto sveglio e in forma a parte la vista che scarseggia. È molto ricco ma non ho paura che sputtani tutti i suoi averi per far felice una badante o per comprarsi un isolotto in mezzo all’Oceano, voglio essere solo sicuro che stia bene e che nessuno gli abbia fatto male”.
“Non vi siete mai sentiti da quando è scomparso? Era già scappato prima?”.
E a queste due domande ravvicinate Umberto era stato colto da una vampata arrossendo in modo allarmante.
“No, non ci siamo mai sentiti… pero’ in relatà mio padre mi ha lasciato un biglietto” mentre Umberto apriva il messaggio mostrandomelo, aveva continuato “…e si, era già capitato in passato ma tutte le volte era rientrato in giornata. Questa è la prima volta che non rincasa la notte”. Sul foglio era riportato in stampatello:
PARTO, NON PREOCCUPARTI, EVITA LA POLIZIA. TORNERO’
Solo una porzione di torta Paradiso aveva fermato Carolina dal passare dalla simpatica fila di alberi ad una sterminata foresta attorno al venti stampato sul tovagliolo.
Edoardo era stato in passato un importante imprenditore ma non aveva nemici.
Non stava scappando da nessuno e infatti la ricerca non era stata né facile né difficile. Il vecchio non si faceva trovare ma nemmeno si nascondeva.
Non aveva carte di credito ma il mio contatto in banca mi aveva detto che aveva staccato un assegno, per un piccola cifra, a favore di una ex attrice professionista nella vicina Laveno. Attrice di che tipo?
L’indomani avevo cercato la signora e, seguendo i fili, ero arrivato fino al vecchio.
Edoardo era vestito in modo impeccabile, camicia cravatta, scarpe tirate a lucido, seduto su una poltrona fuori da un circolo velico in riva al lago. La signora era accanto a lui, in piedi intenta a leggere un libro:
“Sarev vegnuu sul lagh tant volentera, a god sti voster fest in allegria,
che se fuss staa perfina in capponera avarev faa de tutt per vegnì via.
La volentaa par la mia part la gh’era, ché pari giust nassuu par spassamm via:
ma con la volentaa no gh’è manera, senza l’ajutt di sold…”.
Il vecchio mi aveva visto e mi aveva fatto un piccolo gesto che chiedeva di attendere, poi aveva sorriso alla signora che aveva ricominciato a leggere la poesia del Porta.
Leggeva sciolta, con una bella intonazione ritmata e arrivata alla fine di altre due poesie, Edoardo l’aveva congedata ringraziandola.
Poi si era rivolto a me e guardandomi con rassegnazione mi aveva detto “So perché è qui, potrebbe gentilmente riportarmi da mio figlio ora?”.
Aveva salutato dei suoi vecchi amici e si era accomodato accanto a me sulla mia auto.
Osservando il paesaggio sfocato dal finestrino mi aveva raccontato del suo lavoro che lo aveva reso miliardario negli anni del boom edilizio milanese “…quello che mi manca ora che sono anziano, non sono i soldi e mio figlio non deve preoccuparsi di questo. Avrà quello che gli spetta quando sarà il momento e dovrebbe smetterla di trattarmi come se fossi un neonato o un demente. Amo Milano e devo a questa splendida città, dove sono nato e cresciuto, la mia ricchezza culturale ed economica. Quello che mi manca sono peró gli anni della spensieratezza, quelli che con i miei famigliari trascorremmo da sfollati a Laveno mentre la me Milan era sotto i bombardamenti aerei degli Alleati. Vivevamo in una bella villa sul lago. Anni in cui tra ragazzi si parlava dialetto e ci si divertiva con poco”.
L’avevo riportato a casa sua e mi aveva salutato con un inchino “È stato bravo a trovarmi e la prossima volta che decido di venire dalle sue parti passeró a trovarla”. Sulla soglia del portone, Umberto ci apettava impaziente. Mi aveva ringraziato mettendomi in mano una busta con un buono da cinquecento euro da spendere in un’agenzia viaggi.
I soldi mi avrebbero messo in difficoltà per via di mia sorella e lo avevo quindi trovato un bel gesto: “Alura sabat ca vegn, porteró la me surela a faa ‘n bel girett” gli avevo detto.
Il vecchio mi aveva sentito, si era girato e mi aveva sorriso compiaciuto.