Francesco Giannoccaro, Torce rosse, ExCogita Editore, Milano 2021

di Carmine Tedeschi

Il personaggio del poliziotto dal passato operativo pieno di rischi ma ormai anziano e vicino alla pensione, disilluso e frustrato, messo da parte dai superiori per qualche involontaria falla tra le tante che capitano nel suo mestiere ma che hanno ripercussioni di carriera e di immagine tali da insinuare sottopelle un permanente senso di colpa; il poliziotto minato da incomprensioni familiari, abbandonato dalla moglie o rimasto vedovo (come in questo caso) e quindi solitario, tra vita privata in una casa dove torna malvolentieri  e un posto di lavoro maldigerito, in mezzo a colleghi e sottoposti che condividono (e quindi rispecchiano) parte del suo malessere; un poliziotto comunque testardo e deciso ad andare fino in fondo per ineludibile senso di onestà, costi quel che costi:  ebbene, un tale profilo di detective non è del tutto nuovo nella ormai pervasiva letteratura poliziesca. Anche nostrana.

Torce rosse - copertinaÈ diventato, si può dire, un personaggio-tipo, poiché intanto ben si presta alla denigrazione della burocrazia caprona, che fa tutti contenti, cui si aggiunge l’esaltazione dell’iniziativa individuale fuori dalle righe, poco apprezzata, se non osteggiata da quella stessa burocrazia, nonostante e contro la quale all’inizio del racconto l’investigatore si muove senza troppo entusiasmo e con scarse possibilità di successo. Per trionfare tuttavia alla fine, lasciando tutti con un palmo di naso. Tutti tranne il lettore, contento d’essersi immedesimato con l’eroe ”buono”, magari un po’ ammaccato, in realtà misconosciuto cavaliere  solitario.

Tutto ciò funziona sempre e ai lettori del genere senza dubbio piace.

Figure di questo tipo sono frequenti soprattutto nei racconti polizieschi e nel cinema di derivazione americana, in cui sono nate e a cui è sempre cara la contrapposizione astiosa tra iniziativa individuale e disciplina collettiva, con implicita apologia della prima. Ma quasi sempre, in quella matrice narrativa, il conflitto è spinto all’estremo. Vi risalta alla fine un senso di giustizia fai-da-te, proposta come unica scelta possibile in un contesto diegetico volutamente creato per dimostrare che, senza quel gesto trasgressivo e a suo modo ribelle, a causa delle remore normative (diciamo pure di una giustizia un po’ meno sommaria), a trionfare sarebbero fatalmente i “cattivi”. Il che rivela (e sdogana) una visione dei rapporti cittadino-giustizia non proprio lusinghiera.

Ci serviamo di questa lunga premessa per dirigere la lente della lettura verso il giusto fuoco del racconto che il Giannoccaro qui ci offre, accompagnato da qualche sorpresa: la scelta del genere poliziesco, innanzitutto.

Questo è il suo secondo romanzo, maturato nel mezzo di una frequentazione ravvicinata (e raffinata) della lirica in versi, mentre la sua prima opera narrativa (Certe volte la nebbia, Ed. Nulla die, 2012) si connota per l’atmosfera d’amarcord che l’accompagna: quanto di più lontano, insomma, dalla storia investigativa confezionata per la prima volta, ma non senza una certa abilità, in questo testo.

È l’altra sorpresa, però, a metterci sulla giusta strada per afferrare il malcelato scopo sia del libro in sé che della stessa scelta del genere. Si tratta, per dirla in breve, di quanto l’Autore si discosti da quel cliché che caratterizza il protagonista inquirente e che abbiamo cercato di descrivere. Si tratta di vedere quanto ci metta di suo in modo da rendere originale il suo personaggio,  evitando di prendere in prestito une figura consumata di un genere di consumo. Perché consiste in questo, credo, il pregio del racconto: l’aver costruito una personalità originale, che sembra confondersi con la banale umanità, o addirittura con la mediocrità, e che invece al momento opportuno, quasi malgrado sè, tira fuori la tenacia, la perizia e il coraggio del gesto risolutivo.

È appunto il commissario Enzo Cardone. Egli appare, per un buon primo quarto del libro, piuttosto neghittoso, frenato dal peso di un passato che ancora gli brucia dentro. Non vede l’ora di andare in pensione. Ma è proprio quel passato a richiamarlo all’impegno investigativo quando si verificano inspiegabili e violenti reati, che lasciano segni indecifrabili per i suoi colleghi e che egli invece interpreta alla luce di quanto gli è successo anni prima. Potrebbe girare la testa dall’altra parte: non gli compete l’indagine, nessuno gliela affida. Deve muoversi cercando di non pestare i piedi a nessun collega suscettibile. Invece, fra dubbi e ripensamenti, egli osserva, colloca, collega, riflette, valuta e poi agisce con efficacia. Sa stimolare i migliori elementi della sua squadra e ne tollera i difetti. Nel frattempo ricostruisce al meglio anche il rapporto col suo unico figlio. Il tutto nel rispetto dello spirito di servizio. Una figura, insomma, all’opposto della incarnazione dello sceriffo tuttofare all’americana.

Il giudizio sulla valenza poliziesca del racconto “giallo”, che s’innerva in un periodo buio della nostra storia, la lasciamo ai lettori. È la costruzione psicologica, il lento travaglio interiore che porta il commissario a rimettere in campo la sua intima caratura di poliziotto, senza perdere, anzi arricchendo la sua umanità, questo il vero pregio del libro.

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