Dopo D – la Repubblica delle donne, anche Il Foglio dedica una recensione al romanzo Il giorno in cui diventai mia madre di Patrizia Serra, primo titolo della nuova collana Le Astarti. E lo fa attraverso le parole di un uomo, Massimo Morello, creando riflessi tra prospettive di genere più che interessanti.

Serra, Il Foglio

 

“Che ci faccio qui?”: come sempre accade, a parte quando la scrisse Chatwin, è domanda retorica ed equivocata. In questo caso, ad esempio: che ci faccio nella recensione di un romanzo di un’autrice che si lamenta e si vanta della sua capacità di stirare una camicia? Questa contraddizione genetica, una delle tante che giustificano il titolo del libro, se sei maschio, ti costringe a riflettere sui problemi della femmina. Ti mette tristezza, ti fa sentire in colpa. Quindi risponde alla domanda iniziale: sono qui perché l’autrice mi pone un problema. E forse mi aiuta a capirci qualcosa. In questo libro, un uomo può comprendere meglio la condizione femminile. Troppo spesso è raccontata nell’estremo della miseria, della violenza e dell’emarginazione. In altri casi si esprime nell’estremismo del politicamente corretto, ridicolizzata, ideologizzata. Qui è invece raccontata nella banalità della normalità, seppure di una vita da espatriata. Quindi apparentemente glamour, cosmopolita. Almeno agli occhi di coloro che la vivono in posizioni di privilegio oppure di mogli di quegli stessi che riescano a ricostruirsi una vita i cui problemi siano la ricerca di una casa, di una scuola internazionale, l’organizzazione di un trasloco. In questo scorcio di globalizzazione vissuta da boomer, nella tristezza di un amore finito, quello di Serra è un romanzo generazionale senza indulgenze. A partire da se stessa, da sua madre. “Nel corredo genetico che mi portavo dietro mio malgrado, doveva esserci il gene della servitù. Dovevo averlo ereditato da mia madre. E lei, a sua volta, dalle donne che l’avevano preceduta nel suo albero genealogico. Quel cromosoma, nel momento in cui entra un uomo nella nostra vita, risveglia il senso del dovere ancestrale che ci spinge a pulire, lavare, stirare, cucinare e fare di tutto per renderlo felice. A sacrificare i nostri sogni per il suo bene. La cosa inspiegabile è che, spesso, non ci viene nemmeno imposto di farlo. Eppure, non sembra esserci via d’uscita: le aspirazioni del tuo uomo diventano più importanti delle tue, così come i suoi bisogni… Io non esistevo più: ero diventata mia madre”. Così scrive Serra. Che non cede allo psicologismo, all’“ermeneutica del sospetto” che tende a ricercare sempre un complotto sociale. In questo libro la drammatizzazione si stempera nel carattere ironico dell’autrice (ben evidente nella frase finale del romanzo), che è riuscita a rovesciare lo stereotipo del femminile vantando la sua abilità e il piacere nello stirare. Quasi un esercizio zen. (Massimo Morello)