Recensione di Daniele Maria Pegorari

A quasi dieci anni da Certe volte la nebbia, Francesco Giannoccaro torna al romanzo con un giallo intrigante che concede tutto quello che deve al meccanismo dell’inchiesta e al tumulto dell’azione. Ma il poliziesco, come già la memoria generazionale in quell’altro romanzo del 2012, non è che l’abito scelto per rivestire un corpo mai sepolto da questo scrittore: il terrorismo, lo sciagurato scivolamento degli ideali di uguaglianza nel partito armato, con la conseguente devastazione di un’intera generazione. Si può allora comprendere che Torce rosse sia stato scelto dall’editrice Luciana Bianciardi, figlia di quel Luciano che soprattutto con La vita agra (1962) aveva saputo descrivere gli umori e le tensioni operaie che scorrevano sotto il boom economico, conducendo dritti agli “anni di piombo”. Il romanzo di Giannoccaro, infatti, pur ambientato nei tardi anni Novanta, porta il protagonista, il commissario Enzo Cardone, a interrogarsi sul proprio passato, quello che lo aveva visto dirigente di polizia a Torino, nel cuore della violenza contro gli apparati dello Stato e l’economia capitalistica. Così l’inchiesta riguarda non solo il presente, ma anche i fantasmi di una storia mai pacificata che ha toccato Cardone nei suoi affetti più profondi. Questi non ha mai i caratteri del poliziotto duro e irreprensibile: la sua storia, semmai, è costellata di inciampi, sensi di colpa, scelte non convenzionali e sconfitte, prima fra tutte quella di attendere la pensione in una modesta stazione di polizia postale, dopo essere stato per anni in prima linea con la squadra mobile. A fargli da cornice, poi, è un nutrito gruppo di personaggi molto plausibili, anche loro schegge di un’epica impossibile, tutori della legge ridotti a maschere della commedia dell’arte e tuttavia capaci di sostenere Cardone nella chiusura dei suoi conti: l’ispettore Pierino Mogavero con i suoi quotidiani resoconti, l’agente Puffo abile nei controlli informatici, Saro Nuzzolese sempre indeciso fra la sorte del pistolero e quella dell’imboscato, e poi, fuori dal distretto, il vecchio «amico-medico» Giovanni dall’umorismo discutibile e i manovali albanesi Aimir e Dashan, nelle vesti impreviste di “agenti sotto copertura”.
Eppure proprio nel cuore di questa periferia geografica e umana uno strano destino ha scelto di far riannodare i fili della storia nazionale: il fatale incidente automobilistico di Lucrezia (moglie di Cardone), la sparizione di Marina Bernardo (figlia del proprietario di una concessionaria d’auto), una serie di rapine dalle modalità spettacolari, una gambizzazione, due omicidi e persino uno spettacolo teatrale di beneficienza si intrecciano non senza sorprendenti colpi di scena che il lettore avrà il piacere di scoprire da sé.
Ma all’azione poliziesca si accompagna un sottile simbolismo in cui si esprime meglio l’altra vena di Giannoccaro, quella del poeta, che contrappone ai minacciosi murales apparsi sull’edificio del commissariato – le torce rosse che danno il titolo al giallo – e alla misteriosa vernice bianca e granulosa, usata dai malviventi per le loro auto, ben altri colori: quelli a pastello con cui Cardone segretamente riempie i fogli color avorio, custoditi con cura nel cassetto della scrivania ed estratti nelle pause concesse dalla noiosa routine. Si tratta certo di una sublimazione del desiderio di fuga, ma non dalla realtà della sua vocazione di investigatore, verso un’improbabile vita alternativa: egli, infatti, ignora «il cielo», preferendo ritrarre le «scarne presenze sui marciapiedi», ovvero quei segni delle vicissitudini umane che un buon poliziotto deve sempre saper leggere. La «reclusione» da cui il commissario evaderà alla fine è di altro genere e riguarda i fantasmi del passato, riaffiorati inaspettatamente fra «i residui delle mareggiate» e i «resti» della stagione balneare: «soltanto detriti, pur sempre spoglie di qualcosa che era stato».